II Domenica di Quaresima Anno B

25 febbraio 2024


Gen 22,1-2.9.10-13.15-18   Sal 115   Rm 8,31-34   Mc 9,2-10

UN'AURORA BIANCA, COLMA DI LUCE 


Dopo una notte insonne, agitata, senza sogni, traversata da molte ansie, l’arrivo dell’alba con la sua luce nuova è salutata con sollievo: la luce del nuovo giorno arreca conforto e ristoro. Non apprezziamo mai tanto il valore della luce, come nelle situazioni in cui abbiamo sperimentato la durezza dell’oscurità. La situazione descritta dal vangelo di Marco, sul Monte Tabor, non è proprio la stessa, tuttavia è vero che “sei giorni prima” una lucida e drammatica comunicazione di Gesù ai suoi discepoli “Il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto …venire ucciso.. (Mc 8,31) aveva fatto scendere la notte sulla loro anima. Non comprenderemmo la luce del Tabor senza partire dallo sgomento dei discepoli di fronte ad un messaggio così duro, ma anche dai sentimenti angoscianti che Gesù sta duramente affrontando in quei giorni. 

In questo contesto la luce del Tabor che traspare dalla persona di Gesù immersa in preghiera profonda, avvolgendo i discepoli assume con evidenza il senso di una intensa consolazione spirituale di cui entrambi avevano bisogno. L’esperienza della consolazione spirituale in ogni credente, anche se momentanea o parziale, è paragonabile ad un’aurora interiore, uno squarcio che si apre in un cielo tenebroso e che lascia passate un fiotto di luce, decisivo per ritrovare la strada. Anche Gesù ha avuto necessità di ritrovare questa luce, di essere ri-assicurato sulla sua missione da parte del Padre. Anzi consolazione, conferma e conforto del Padre erano importanti soprattutto adesso nella prova, per poter accogliere la rivelazione piena del segreto messianico del Nuovo Testamento; consolazione non di ricevere rassicurazione che la prospettiva della passione e morte verrà fugata all’ultimo momento (come era capitato per il sacrificio di Isacco), ma dal fatto di poter contemplare, in quell’arco di luce, una teofania gloriosa di tutta la storia di Dio con l’umanità. Vedere come il Padre fosse con Lui e come attraverso questo destino avverso avrebbe comunque realizzato la sua verità messianica, dava veramente conforto e forza a Gesù motivandolo ad abbedirGli. 

Per i discepoli dobbiamo fare evidentemente un discorso diverso. Pur istruiti e rassicurati da Gesù circa la risurrezione del Figlio dell’uomo, non riescono, e non possono, fare tesoro delle sue parole sollecite; più Gesù spiegava queste cose, meno loro capivano “chiedendosi cosa volesse dire risorgere dai morti (v. 10). Non è certo per caso o per sbaglio che Gesù aveva portato con sé sul monte Pietro, Giacomo e Giovanni. Facendo far loro l’esperienza della luce taborica, ben prima che essi potessero avere la minima comprensione razionale di cosa volesse dire risorgere dai morti, pare quasi che il Maestro abbia voluto comunque iniziarli alla contemplazione del mistero pasquale. Come per tutti noi infatti, anche per gli apostoli, l’esperienza mistico-spirituale e la comprensione intellettuale del mistero della fede ad essa corrispondente, hanno due velocità molto diverse e non fra di loro sincronizzate: più veloce ed immediata la prima che s’imprime nell’anima, più lenta, difficile e laboriosa la seconda che passa attraverso la mente. 

Occorreva infatti che Pietro, Giacomo e Giovanni nei giorni decisivi in cui, dopo la morte e la sepoltura del maestro sarebbero stati confrontati dal mistero della tomba vuota e dall’angelo dalle vesti bianche veduto dalle donne, sapessero ricordare quella esperienza della luce che anche loro avevano fatto al Tabor, e delle vesti divenute bianchissime. Solo così avrebbero potuto dare un nome, ed un contenuto a quel risorgere dai morti di cui ora si chiedevano invano il significato. Contrariamente a quello che pensiamo la fede compresa in termini razionali non precede, ma caso mai interpreta, chiarifica, dà un nome, delimita un vissuto esistenziale ed esperienziale che non può mai essere sostituito, né prodotto da un discorso solo teorico o nominalista.

 

Domande per continuare la riflessione 

- Quale spazio lascio nella mia vita di fede alla sua dimensione esistenziale, mistica e contemplativa? Oppure mi limito al gioco intellettuale fatto di ragionamenti e parole? 

- Mi lascio di tanto in tanto, condurre da Gesù in disparte per cercare il suo volto, la sua luce, la sua presenza? Quali sensazioni ed affetti profondi ne sono coinvolti?