Is 35,4-7 Sal 145 Gc 2,1-5 Mc 7,31-37
MISTAGOGIA LIBERANTE!
La pagina su “puro ed impuro” di Marco di domenica scorsa, aveva segnato il passaggio d’una linea rossa cui Gesù costringeva i suoi ascoltatori. Marco dopo presenta due episodi mistagogici: la guarigione della figlia di una siro-fenicia e l’odierna guarigione del sordomuto. La mistagogia è l’iniziazione, fatta attraverso parole e gesti carichi di mistero, a verità sconosciute...cui ormai chi ha seguito Gesù fino a quel momento, deve essere introdotto.
Gesù, in questa pagina, è presentato come un profeta in pieno territorio pagano. A lui viene portato un sordomuto perché gli imponga la mano. Il gesto, che troviamo nei patriarchi e nei profeti, attua una trasmissione di energia da chi lo esegue a chi lo riceve. Gesù però non si limita ad imporre la mano ma porta il sordomuto in disparte lontano dalla folla (v.33). L’espressione equivale a dire che il sordomuto è condotto nel deserto, analogamente a quanto fece Dio ad Israele all’inizio dell’Esodo: lo condusse nel deserto perché gli rendesse culto (Es 3,12). Il libro dell’Esodo insegnava che il Signore può essere incontrato e adorato solo nel deserto. La chiamata nel deserto d’Israele è fondamentale perché il popolo possa scoprire la comunione cui è destinato. Osea riprende questo tema approfondendolo e trasformandolo in una fondamentale chiamata all’interiorità, anzi ad una vera intimità, quasi un’intimità nuziale (Os 2,8-9.15-16); insegna che il credente è chiamato a rimanere solo, per scoprire (proprio nella sua solitudine) le radici della capacità di comunione. Quando Gesù prende il sordomuto in disparte stabilisce con lui un rapporto personale, profondo, che richiama non solo l’Esodo ed Osea, ma anche il Dio Creatore di Genesi 2 “Plasmò l’uomo con polvere del suolo, soffiò nelle sue narici un alito di vita…”(Gen 2,6-7). Marco infatti descrive Gesù che “Portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua” (7,33). Il sordomuto rappresenta non solo Israele, ma ogni uomo che, a causa delle proprie scelte sbagliate, ha perso la capacità di ascoltare il prossimo e Dio. Il miracolo operato da Gesù non solo è una guarigione dell’udito, ma una vera restaurazione e recupero di quell’immagine di Dio in cui l’uomo era stato creato ma che, a causa del peccato, aveva poi perduto!
Il Padre ora, attraverso Gesù, interviene sulla sua creatura per metterla finalmente in grado di realizzare le finalità per cui era stata originariamente creata. Secondo l’interpretazione patristica Dio Padre agisce con due mani che sono il Figlio e lo Spirito Santo. Marco dicendo che Gesù “con la saliva gli toccò la lingua” si riferisce allo Spirito di cui, per gli antichi, la saliva rappresenta un condensato. Con i suoi gesti misteriosi Gesù rivela al sordomuto il suo amore e ne raggiunge l’intimità sintonizzandola con il suo stesso Spirito. L’uomo, reso sordo e muto dal peccato, viene alla sua condizione originaria, nuovamente capace di udire e parlare, e quindi di mettersi in sintonia con la terra (gli altri uomini) e con il cielo (Dio). Il comando “Effatà" cioè "apriti!” significa: sei ricreato come uomo nuovo quindi ora apriti alla vita! L’apertura dell’udito e lo scioglimento della lingua lo rende capace di comunicare con verità ed amore. Potrebbe terminare tutto qui, invece Marco aggiunge “E comandò loro di non dirlo a nessuno” (v.36). Come mai?
L’annotazione ci rivela come l’esperienza di Dio rimanga indicibile. Un detto monastico medievale ammoniva “Secretum meum mihi”. Quando siamo introdotti nel mistero della Parola o della comunione con Dio e con gli uomini (come nei sacramenti) ci rendiamo conto che ogni nostra parola rischia di essere di troppo e di tradire l’esperienza avuta. Appare strano che Marco dica “Comandò loro di non dirlo a nessuno” quando erano solo Gesù ed il sordomuto gli unici presenti… Tuttavia qualcuno l’aveva visto allontanarsi con Gesù e questo era sufficiente per testimoniare il cambiamento avvenuto, ma chi non ha uno sguardo purificato rischia di alterare, narrandole, anche le cose più sante. Marco ci avvisa come nelle cose di Dio occorra rimanere sulla soglia, conservando un silenzio discreto e rispettoso su ciò che eventualmente vediamo… (o pensiamo di aver veduto…)! Infatti potremmo non solo non aver visto bene, o riferire in modo inappropriato, ma anche essere fraintesi. In ogni caso, chi ha sperimentato davvero la presenza del Signore, ne uscirà trasformato e questa trasformazione non potrà restare nascosta, anche senza una nostra sempre inadeguata testimonianza (o forse… chiacchericcio…).
Marco giunge qui alla soglia dell’esperienza sacramentale: le dita nelle orecchie, la mano sul capo, la consegna d’un cero, un’unzione con l’olio sono gesti che fanno parte d’una normale vita sacramentale. Chi non pratica i sacramenti si priva di quest’intimità mistica. L’azione dello Spirito, che guida il credente sulle soglie della presenza di Dio non è metaforica, ma azione reale, concreta. Il ritualismo formale ci fa vivere a volte la liturgia ed i sacramenti come realtà abitudinarie che non incidono più in noi. Nella vita sacramentale occorre invece aprirsi alla azione dello Spirito. Il Genesi ci testimonia che Dio “Insufflò nelle narici e l’uomo divenne essere vivente” (Gen 2,7). La presenza dello Spirito ci rende viventi immettendo in noi sensi rinnovati: uno sguardo nuovo sulla realtà, un ascolto diverso delle cose, un tatto nuovo nella sensibilità, così come una percezione, un gusto, un profumo diversi davanti alla realtà della storia. Si tratta dei frutti che germogliano nel credente all’interno d’una vita sacramentale autentica e profondamente vissuta.
Non rimane che unirsi all’esplosione finale del popolo testimone delle cose meravigliose operate da Gesù: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (v.37).
Domande per continuare la riflessione
-Vivo ed amo la solitudine come incontro con quel sé profondo che mi rende capace di comunione con le cose, con gli altri, con Dio? Oppure la rifuggo per rimanere sulla superficie delle cose?
-Sono convinto che occorre tornare alla vita profonda per recuperare e ritrovare la comunione con gli altri e con Dio?
-Come vivo le realtà sacramentali e liturgiche che mi propone la chiesa?